Pierluigi Collina e l'autorità perduta
Calcio, Società

Pierluigi Collina e l’autorità perduta

Gli anni più recenti di questo maledetto Ventunesimo secolo sono stati funestati da una lunga serie di disastri sociali e culturali. In cima, o nelle più alte vette di questa obesa collina ricolma di degrado, spicca la totale mancanza di rispetto e di fiducia nei confronti dell’autorità. Un’autorità assoluta, trasversale a qualunque realtà politica, lavorativa, ludica e d’intrattenimento.

Nel Ventunesimo secolo l’autorità è costante soggetto di critiche quotidiane, spesso con termini e metodi decisamente non concessi dalla società civile e dall’educazione. Il politico è inaffidabile e va tenuto alla larga, spesso è ladro, o figlio di meretrice, o se di sesso femminile meretrice stessa. L’insegnante irrispettoso e non comprensivo nei confronti del povero innocente figliolo, che è tutto fuorché un teppistello, ma tira i cancellini e non studia una mazza.

Infine, ma la lista potrebbe essere ancora più lunga, il massimo simbolo dell’autorità nella società contemporanea: l’arbitro.

Riguardo filmati d’epoca, del lontano Ventesimo secolo, e di tanto in tanto scorgo qualche protesta di giocatori e tifosi all’indirizzo degli arbitri. Proteste blande, signorili, richieste di spiegazioni quasi firmate in carta bollata rispetto a ciò che vediamo oggi su qualunque campo di calcio. Erano tempi in cui era concepito l’errore. E chi non lo accettava manifestava disappunto a modo suo: come Michel ‘Le Roi‘ Platini.

Ho scelto il simbolo dell’arbitro per parlare un po’ di autorità nel Ventunesimo secolo, e sono riuscito a trovare una data fatidica in cui il mondo intero si è accorto che dell’autorità è meglio non fidarsi, e allo stesso tempo chiunque di noi può essere autorità: il 29 agosto 2005. Immagino una giornata calda d’estate, e il sole a picco che si riflette sulla testa pelata di un uomo di mezza età che una settimana prima ha finito di dirigere un’inutile gara di Coppa Italia, in uno stadio semideserto della Pianura Padana.

Pierluigi Collina, dopo 28 anni di onorevole servizio, si ritira dal calcio arbitrato, e quel giorno l’ultimo simbolo di un’autorità ormai decadente agli occhi della società, abdica a favore di una serie di volti più o meno noti, che non sapevano cosa li avrebbe aspettati: una lente d’ingrandimento che ne avrebbe osservato ogni mossa, ogni microespressione, ogni errore, per metterli alla gogna mediatica.

Pierluigi Collina non solo è uno degli ultimi rappresentanti di un calcio che non c’è più, ma la sua sembra quasi una rassegnazione, un gettare la spugna. Di fronte a inutili polemiche, ad accuse, a proteste fuori luogo, immagino le sue rughe d’espressione farsi sempre più contrite e, infine, la consegna di taccuino e fischietto come fossero pistola e distintivo di un detective che è troppo vecchio per continuare a inseguire i criminali. E va in pensione.

L’autorità degli arbitri, costantemente messa in dubbio da milioni di italiani e decine di programmi televisivi, verrà presto affiancata dalla più affidabile tecnologia: la VAR, una sorta di moviola in campo facilmente consultabile dal direttore di gara. La direttiva sembra tracciata, e non è un’utopia pensare che, davvero, tra qualche anno, chiunque di noi possa essere arbitro, tanto a fare il nostro lavoro ci sarà la tecnologia.

Un amico ben più lungimirante di me direbbe in questo caso che il genere umano ha iniziato ad autodistruggersi ben prima del 2005, e il ritiro di Pierluigi Collina è solamente un’altra pietra sul lungo lastricato verso l’estinzione. Non so se sia così, certo è che da anni nei salotti radical chic e non solo si parla del fenomeno della disintermediazione, e di come stia sconvolgendo la nostra società.

Ed è tutto vero. Non andiamo in un’agenzia di viaggi per organizzare un tour della Patagonia, non chiediamo al professore per avere un’informazione, usiamo Wikipedia, non ci fidiamo del politico genericamente ladro, non ci affidiamo al quotidiano, ma al web, non rispettiamo neppure più un arbitro con decine di anni di carriera alle spalle, perché è un essere umano. E gli esseri umani possono sbagliare.

Non accettiamo neanche questo, l’errore nel Ventunesimo secolo non deve esistere, va immediatamente corretto.

E se è l’autorità a sbagliare, deve sparire.

Saggio è chi pensa. L’arbitro non può essere saggio. Deve essere impulsivo. Deve decidere in tre decimi di secondo

Pierluigi Collina

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La depressione è una cosa seria. Quando siete tristi, anziché urlare ai quattro venti le vostre disavventure, pensate che potrebbe sempre andare peggio: potreste essere Manolo Gabbiadini.
Calcio, Società

I dolori del giovane Manolo (Gabbiadini)

I goal di Manolo, mai sorridente, ora gioia innocente.

Ogni volta, quando mi viene in mente un possibile tema su cui scrivere un articolo, scrivo la bozza e qualche parola basilare e iconica, per ricordarmi che caspita avessi nella testa quando ho avuto tale idea. O talaltra.

Oggi è la volta di Manolo Gabbiadini, attaccante italiano che a gennaio ha lasciato la Serie A e il Napoli per accasarsi in Inghilterra, in Premier League, al Southampton; e dell’effimera felicità della vita.

Arthur Schopenhauer, che dalla tomba si è visto ridurre anni di riflessioni e scritti a “mai una gioia“, diceva, con una delle sue citazioni più abusate: La vita umana è come un pendolo che oscilla incessantemente tra dolore e noia, passando attraverso l’intervallo fugace, e per di più illusorio, del piacere e della gioia.

Senza saperlo, circa 200 anni fa Arthur Schopenhauer, filosofo, descriveva con eccelsa perizia la vita calcistica di Manolo Gabbiadini.

Una vita di promesse e di attese, di corse, ma soprattutto rincorse. Rincorse al proprio destino calcistico, in perenne attesa di un’epifania, rincorse brevi e punizioni efficaci, nel periodo migliore della sua carriera, alla Sampdoria, rincorse per recuperare terreno a chi si trovava, con merito, davanti a lui.

Gabbiadini a Napoli ricordava uno dei quei tormentati eroi romantici, sempre con lo sguardo triste e la sensazione di essere in balia di uno spleen baudelaireiano superiore anche a quello dei poeti maledetti. Un male di vivere insostenibile, un modulo di gioco mai congeniale, i fischi dello stadio, il San Paolo, un’eternità da comprimario e da rincalzo.

Manolo Gabbiadini è uno di quei calciatori del terzo millennio, ibridi, che non hanno il physique du rôle per essere punte di peso e sfondamento, né la rapidità, il dribbling e lo spirito di sacrificio per quelli che oggi sono i canoni dell’ala nel 4-3-3 tanto di moda.

A Napoli, Manolo trova ostacoli decisamente importanti per la sua crescita calcistica, costantemente alla ricerca di quella felicità che sembra non conoscere neppure alla lontana. Tra i quintali di goal di Gonzalo Higuaín e la novità Arkadiusz Milik. Poi Dries Mertens, che dovrebbe giocare esterno nel 4-3-3 e non falso nueve, ma decide l’allenatore. Sarri decide Mertens, Mertens segna, Sarri vince. Manolo mai.

Manolo saluta Napoli con una lettera affidata alla sua pagina Facebook ufficiale, in cui ringrazia i tifosi, ma non dimentica i fischi e così si toglie qualche sassolino dalla scarpa, citando il minutaggio avuto a disposizione e le reti segnate. Alla fine la media è buona, circa mezzo goal a partita, ma Manolo a Napoli il segno non lo ha lasciato.

Arriva gennaio e dopo un girone d’inverno di tormenti (in una partita comincia da titolare, sostituito al 60esimo, Milik entra e ne pianta due), Manolo va a cercare fortuna nella perfida Albione, nel meridione inglese, a Southampton.

Nei Saints tutto sembra andare a meraviglia, l’impatto con il calcio inglese è devastante e in 5 partite giocate Manolo segna 6 goal. I tifosi gli dedicano addirittura un coro incredibile. E forse per immaginare cosa sia la felicità dovremmo fermarci a queste statistiche, perché la realtà è un triste pendolo che oscilla tra noia e dolore, la gioia è solo effimera.

La storia della vita di ognuno di noi è la storia della vita calcistica di Manolo Gabbiadini, che al Southampton sembra aver trovato la sua dimensione, convincente, vincente. Quasi. Quasi, perché il destino, o Schopenhauer dalla tomba, vuole ricordare a Manolo che sorridere ed essere felici è uno sbaglio, perché la noia e il dolore sono dietro l’angolo. Meglio essere preparati.

La foto copertina ritrae la sua presa di coscienza di fronte alla crudeltà della vita. Segna due goal, sarebbero tre se uno non fosse annullato per fuorigioco inesistente, al Manchester United in finale di Coppa di Lega, stremato dalla fatica viene sostituito e si prende gli applausi di Wembley. Ibrahimovic ne stampa due, di cui uno decisivo.

Southampton 2 – 3 Manchester United.

C’mon Manolo, c’est la vie.

Les Reed went to Europe
to buy a Lamborghini,
instead he bought a striker,
his name was Gabbiadini

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Ciascuno è artefice della sua fortuna? Tra film e realtà, Match Point e Napoli.
Calcio, Cinema

Ciascuno è artefice della sua fortuna?

Faber est suae quisque fortunae

Sallustio

Ciascuno è artefice della sua fortuna, della sua sorte.

È un’affermazione con la quale spesso mi trovo d’accordo. Ma è proprio così semplice come sembra? O talvolta la fortuna diventa un’ingovernabile entità che sceglie spontaneamente se e come manifestarsi?

Torno a pormi questa domanda ogni volta che guardo Match Point. L’incredibile film di Woody Allen da cui è tratta l’immagine copertina di questo articolo. Match Point racconta la storia di un giovane maestro di tennis e di come, tra scalate sociali, tradimenti e omicidi, la sua vita si trovi a dipendere dal fato. Dalla fortuna. Dalla pallina da tennis, che, fermatasi sul nastro, può cadere in ambedue le parti del campo. A metà strada tra la vittoria e la sconfitta. La vita di Chris è decisa da un anello che rimbalza su una ringhiera, sulla riva del Tamigi. Senza che neppure sia a conoscenza di questo evento, il suo esito determinerà l’impotente destino di Chris.

Chi disse: “Preferisco avere fortuna che talento”, percepì l’essenza della vita. La gente ha paura di ammettere quanto conti la fortuna nella vita. Terrorizza pensare che sia così fuori controllo. A volte in una partita la palla colpisce il nastro e per un attimo può andare oltre o tornare indietro. Con un po’ di fortuna va oltre e allora si vince. Oppure no e allora si perde.

Chris

Torno a pormi questa domanda di fronte ad alcuni recenti eventi di cronaca. Renato Di Gennaro è stato freddato a Napoli, a mezzogiorno, in mezzo alla gente attonita, di fronte alla chiesa di Maria Montevergine. Era un ragazzo di 21 anni, giustiziato da due sicari in scooter. Questioni di droga, sette, otto colpi di pistola. La fortuna, da tempo, aveva voltato le spalle a Renato. Da due anni aveva smesso di giocare a calcio, di coltivare quel sogno di diventare calciatore professionista che era quasi realtà, quando calcava i campi della Serie A Primavera con la maglia del Napoli. Nel 2014 partecipò al Torneo di Viareggio. Un goal segnato ad una squadra australiana.

Da quale attimo è stata decisa la vita di Renato? Non è un nome cool come Chris, e non è il protagonista di un film di Woody Allen, ma quale pallina da tennis è caduta dalla parte sbagliata della rete? In altre circostanze forse sarebbe stato più semplice puntare il dito e giudicare, ma l’associazione della realtà filmica alla quotidianità conferisce un gravoso senso di caducità alla vita di ognuno di noi. Penso a chi ce l’ha fatta, a chi ha avuto la fortuna dalla sua, a qualche aspirante calciatore che è diventato tale, che ha condiviso le stesse complicate esperienze di Renato. Quelle della povertà, del degrado sociale, della criminalità. Penso ad Antonio Cassano e a Bari Vecchia, ai tanti sportivi napoletani che militano nelle squadre di Serie A.

Torno a pormi questa domanda nelle situazioni di tutti i giorni. Mentre oriento con forza il timone della mia vita, in mezzo ad una tempesta, quanti eventi al di fuori della mia portata determineranno la mia rotta? Ciascuno è dunque artefice della propria fortuna, della propria sorte, ma allo stesso tempo non resta che accettare l’evidenza della sua realtà intangibile e della sua mutevolezza.

Alcune volte il Match Point ci sorriderà, e la pallina cadrà dal lato giusto del campo. Altre ci vedrà perdenti. Non resta che affidarsi al caso.

Alla fortuna.

 

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Il tradimento di Scilipoti vale molto più dei 90 milioni di euro di quello di Higuain. Tra politica e calcio, ormai, è tutta una giungla.
Calcio, Politica

Scilipoti, core ‘ngrato

9 dicembre 2010: il deputato Domenico Scilipoti abbandona l’Italia dei Valori per formare il Movimento di Responsabilità Nazionale.

14 dicembre 2010: il deputato Domenico Scilipoti eletto come membro dell’opposizione, vota la fiducia al Governo Berlusconi IV, salvandone le sorti.

26 luglio 2016: il calciatore Gonzalo Higuaín si trasferisce dal Napoli alla Juventus, per la modica cifra di 90 milioni di euro.

3 gennaio 2017: il senatore Domenico Scilipoti, eletto tra le file di Forza Italia, diventa vicepresidente della commissione Scienze, Tecnologia e Sicurezza della Nato.

Domenico Scilipoti e Gonzalo Higuaín non hanno in comune praticamente nulla. Il primo è un ginecologo tozzo e rotondetto nato a Barcellona Pozzo di Gotto, il secondo è uno degli attaccanti più forti del mondo, nato a Brest, ma argentino. Al di là di qualche chilo di troppo, senza dubbio il comune denominatore di questi due diversamente celebri personaggi è uno e uno soltanto: con il tradimento hanno fatto la loro fortuna.

Gonzalo, dopo una stagione miracolata alla corte di Aurelio De Laurentiis, al Napoli, coronata dal record di marcature di sempre in Serie A (36 goal), e segnata dall’accesissimo duello (perso) con la Juventus per la vittoria dello scudetto, nel mercato estivo si è trasferito alla squadra rivale. Per vincere. Perché la rosa a disposizione dei bianconeri prometteva e, per ora, mantiene grandi traguardi, anche europei.

L’ira dei tifosi napoletani è stata più funesta di quella del Pelide Achille, tra maglie bruciate, insulti, simpatiche macumbe, morti e infortuni augurati (e avvenuti). Per tutta risposta, Gonzalo segna il 2-1 e risolve la sfida tra Juventus e Napoli. Non esulta. Ma gode silenziosamente. Ha vinto lui. D’altra pasta è fatto l’altro giuda di questo breve articolo, il ginecologo-deputato-senatore Domenico Scilipoti.

Domenico viene eletto deputato nel 2008, candidato con l’Italia dei Valori, il partito di Antonio di Pietro. Dopo due anni di legislatura dimostra di aver compreso alla perfezione i meccanismi della politica moderna: di fronte alla votazione per la fiducia del Governo Berlusconi IV aspetta di vedere se il suo voto e quello di due colleghi sarebbero stati decisivi, dopodiché sostiene la maggioranza e salva Il Cavaliere.

A sostenere il suo salto della barricata, una ventina di immigrati sfilano in piazza San Silvestro a Roma. Intervistati, svelano di essere pagati dal nostro amico Domenico, per fingere l’esistenza di un consenso sulle sue scelte. Nel 2013, con l’avvento di una nuova legislatura, l’allora deputato si ritrova senatore, questa volta tra le file di Forza Italia, al seguito di Silvio Berlusconi.

Dal salvataggio del Cavaliere, in una sorta di donchisciottesca farsa, la carriera di Scilipoti è scintillante:

  • 14 marzo 2012 “Tutti noi sappiamo a cosa serve l’ano. Il rapporto anale tra due uomini è sicuramente contro natura, fuori dal normale, quello non è voler bene e rispettare l’altro, è un atto animalesco“.
  • stesso giorno “Nel mio dna forse c’è qualcosa di Benito Mussolini: le scelte giuste fatte da Mussolini sono state moltissime, nell’interesse del Paese e nell’interesse dell’Italia. A ancora oggi ne vediamo i risultati“.
  • 27 ottobre 2012 “Io sono coerente, ho fatto una scelta nell’interesse del Paese. Non ho mai cambiato casacca. Ho fatto come Saragat nel 1947. Anche lui scelse gli interessi del Paese“.
  • 13 dicembre 2014 “Si ammetta ufficialmente che le scie chimiche fanno parte di un preciso disegno di geoingegneria in accordo con gli Usa!“.

E, dulcis in fundo, la definitiva consacrazione del ginecologo saltimbanco, l’acrobata della politica italiana diventa vicepresidente della commissione Scienze, Tecnologia e Sicurezza della Nato, per esportare i veri valori della nostra penisola, le competenze e la cultura sconfinata di un uomo che ha dato tutto se stesso per il benessere del bel paese. Signore e signori, Domenico Scilipoti rappresenterà, anzi rappresenta, l’Italia alla Nato.

Si conclude così questa breve storiella sui tradimenti, a dimostrazione che, nel calcio e nella politica, per comprare un uomo non servono 90 milioni di euro.

N.B. a scanso di eventuali querele, le inchieste di corruzione legate al suo passaggio di bandiera sono state archiviate (…)

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Dalla favola di Esopo a quella del Leicester. La volpe ha mangiato l'uva, ora è sazia.
Calcio, Letteratura

La volpe ha mangiato l’uva

« Una volpe affamata, come vide dei grappoli d’uva che pendevano da una vite, desiderò afferrarli ma non ne fu in grado. Allontanandosi però disse fra sé: «Sono acerbi». Così anche alcuni tra gli uomini, che per incapacità non riescono a superare le difficoltà, accusano le circostanze. »

Sei secoli prima della nascita di Cristo, un certo Esopo, uno schiavo proveniente dall’Africa, giunse in Grecia. Emancipatosi dalla sua condizione sociale, cominciò a raccontare e scrivere favole, prima di essere linciato dalla popolazione di Delfi.

I protagonisti delle sue favole erano spesso animali personificati, grazie alle cui azioni Esopo ammoniva il lettore con una morale. La più famosa e conosciuta è sicuramente la storia della volpe e l’uva, quella citata qualche riga sopra.

Più di 2.500 anni fa, probabilmente Esopo non immaginava che la sua favola sarebbe diventata realtà. Questa volta, favola e realtà sono entrambe sportive e la volpe è la manifestazione quasi divina di chi, a dispetto della morale e dei racconti dell’antichità, è riuscito a mangiare l’irraggiungibile uva. La volpe è il simbolo della tenacia di un gruppo di uomini che sono riusciti a compiere un’impresa, ma allo stesso tempo, dopo l’entusiasmo, la celebrazione, la vittoria, dopo essersi nutriti, si sono lasciati catturare dai cacciatori.

Dalla Grecia di Esopo la favola della volpe viaggia fino in Inghilterra, siamo nella cosiddetta età vittoriana e la traduzione della morale assume un significato più definito. L’uva acerba diventa sour grape, “uva aspra”, peculiare locuzione che nelle terre d’oltremanica vuole indicare una sconfitta, una rinuncia definitiva: la volpe non abbandona l’uva acerba per ritentare di coglierla quando sarà matura, la volpe cede di fronte alle avversità, incolpando il destino, piuttosto che se stessa.

Presso la città di Leicester, nelle East Midlands inglesi, da secoli le volpi sono prede frequentissime della pratica venatoria locale. La favola di Esopo si è diffusa a macchia d’olio nel Regno Unito, e gli abitanti del Leicestershire hanno imparato a conoscere le volpi e le loro difficoltà, a cacciarle e braccarle, ma soprattutto a distinguere le fallacie dell’animo umano, a comprendere come superarle. Nel 1948 la squadra di calcio locale, fondata circa 60 anni prima, associa il simbolo della volpe al proprio stendardo.

Dal 1948 al 2015 le Foxes, “le volpi” d’Inghilterra, non hanno mai ceduto alla tentazione di darsi per vinte. Hanno sofferto, certo, spesso sono state sconfitte di fronte ad avversari più valorosi o più fortunati, oppure hanno dovuto soccombere di fronte al ripresentarsi delle debolezze degli uomini: la paura, il terrore, infine la rinuncia. Perché per conoscere se stessi è necessaria una vita, ma per perdersi, alla fine è sufficiente un attimo.

Claudio Ranieri nasce nel 1951 a Roma, ha un grande feeling con la lupa, e della volpe conosce poco. Ma Roma è la città eterna e qui, la mitologia e le favole tendono a confondersi con la realtà. Claudio la favola di Esopo la conosce tradotta in latino da Fedro, poco importa che il significato sia o meno leggermente differente, la tenacia e la forza d’animo diventano un mantra. A scolpirlo nella mente dell’uomo ci pensano le sconfitte, le cadute da cui bisogna sempre rialzarsi, le vittorie che saranno realtà, come le favole.

Nel 2015 la storia della lupa e della volpe ha un punto d’incontro, Claudio Ranieri è il nuovo allenatore della squadra di Leicester. Ma non dimentichiamo la morale di Esopo, gli uomini sono fallaci ben più degli animali, e le loro parole piene d’odio e d’ignoranza possono scalfire il debole o l’indifeso, ma non chi ha imparato dal mito, dalla favola, chi crede in se stesso. La stagione successiva si apre in contemporanea con quella venatoria, ma le prede sono diventate predatori, e le Foxes trionfano, elevando la favola a realtà. Da Esopo alla Premier League.

Claudio Ranieri da figlio della lupa diventa figlio della volpe, poi a sua volta autore e protagonista di una nuova traduzione della favola di Esopo: lui e i suoi giocatori sono le volpi, si arrampicano sull’albero in modo talvolta goffo, talvolta rapido e irruento, mangiano l’uva e poi hanno tutto il tempo per fermarsi a urinare sulla vite. Da maestro inadatto e incapace, Claudio diventa Thinkerman, “il pensatore”, lo stratega che conosce gli uomini prima ancora di conoscere le volpi.

Ma l’essere umano è un animale debole, forse più della volpe, e spesso non si avvede di come dietro un lieto fine possa celarsi una morale ancora più grande: chi nasce preda e si improvvisa predatore, morirà preda, se non apprende in fretta le regole del gioco. Una volpe non può permettersi di riposare, di godersi il traguardo raggiunto senza avvedersi dell’arrivo dei cacciatori. All’alba del 2017, le Foxes annaspano, inseguite dai demoni di un passato lontano qualche anno, testimone di cadute e di sconfitte.

I demoni si nutrono di paura, e le volpi che hanno già vinto i cacciatori una volta, ormai non ne hanno più. Ancora una volta, sono gli uomini a dover imparare dagli animali.

Da Esopo a Leicester.

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L'Italia calcistica non è più luogo di bandiere. Lo stesso vale per gli ideali dimenticati del mondo politico
Calcio, Musica, Politica

Un’Italia senza bandiere

Tra un anno, forse due, Francesco Totti smetterà di giocare a pallone. Tra vent’anni, forse qualcuno di più, forse qualcuno di meno, io dovrò spiegare a mio figlio cosa siano queste fantomatiche “bandiere” di cui si sente parlare, che no, non sono quelle che vede sventolare nelle curve o nelle gradinate. Ma che si tratta, si trattava, di uomini. E di ideali.

Sempre Francesco Totti in questi giorni ha visto circolare per Roma un furgone con la sua celebre immagine nella quale mima a Igor Tudor “zitto, hai preso 4 pere, vai a casa mo’ “. Era Roma-Juventus 4-0, dell’8 febbraio 2004. Siamo nel 2016 e la foto è appena stata utilizzata per convincere qualche romano romanista a votare NO all’imminente referendum costituzionale.

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Qualche romano romanista voterà NO, tanti romani laziali voteranno SI’. Francesco Totti nel frattempo ha detto di non voler più assistere a strumentalizzazioni politiche della sua immagine. Tutta questa premessa è volta unicamente alla mia tutela personale, ti prego France’ non mi querelare, non mi scomunicare: non strumentalizzo ma associo.

Associo l’estinzione delle bandiere calcistiche italiane, di quegli ideali di onore e lealtà, di appartenenza, all’ambito politico, sempre più devastato dagli interessi personali, dal vil denaro, dall’amore morboso per le poltrone. Giorgio Gaber nel 1992 scriveva e decantava Qualcuno era comunista, posso solo immaginare, purtroppo, cosa direbbe oggi.

Nella politica italiana, l’avvento degli anni ’80 e ’90 ha portato con sè la morte di Enrico Berlinguer e la fine degli ideali, soprattutto quelli di sinistra. Il calcio, quello delle maglie senza nomi e senza sponsor, quello proletario di sangue e fango, è morto poco dopo. E le bandiere sono solo ricordi sbiaditi di quell’epoca che sembra così lontana.

Resiste solo Francesco Totti, quarant’anni, una sola squadra, una sola maglia. Alessandro Del Piero ha mollato, ha ricevuto il ben servito, Paolo Maldini non ne parliamo, osteggiato da quei tifosi che avrebbero dovuto fargli un monumento. E via dicendo. Il ventunesimo secolo ha visto crescere sterpaglie sulle tombe degli ideali politici e tumulare quelli calcistici.

Con uno sguardo al passato, Gaber oggi canterebbe Qualcuno era romanista, o più probabilmente si dispererebbe guardando ciò che è diventata l’Italia. Divisa dagli interessi personali, dal do ut des, dal clientelismo, dalla corruzione. Qualcuno che ha studiato la storia del nostro paese commenterà: “eh ma anche con la Democrazia Cristiana era lo stesso”.

Forse sì, forse questo qualcuno (che potrei essere io stesso) ha ragione. Ma la differenza fondamentale è una e una soltanto: i valori. Si può credere in qualcosa di giusto o di sbagliato, di moralmente deprecabile o di condivisibile, ma bisogna avere l’onestà intellettuale e la coerenza per crederci davvero.

Che fine ha fatto l’integrità? La politica e il mondo del calcio italiano corrono su binari paralleli. Universi in cui gli ideali non sono neanche fantasmi, ma retaggi mitologici, universi in cui il valore di uno scudetto sul petto, qualunque esso sia, ha un prezzo. Non resta che vendersi a chi paga meglio, in Parlamento o allo Stadio Olimpico.

Silvio Berlusconi è il Mino Raiola della politica.
Ahimè, entrambi lo considererebbero un complimento.

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Una ruleta dopo l'altra, Zidane ha conquistato il mondo
Calcio, Immigrazione

La ruleta di Yazid, un musulmano

La storia di come, una giravolta dopo l’altra, un immigrato di seconda generazione ha conquistato la Francia e il mondo.

Nel 1953 l’Algeria è ancora colonia francese, l’indipendenza arriverà solo nove anni più tardi, ma svariati movimenti popolari, spesso violenti, sono attivi sin dalla Prima Guerra Mondiale. Smaïl, pastore berbero, musulmano praticante, decide di abbandonare la sua patria per scampare alla violenza di una delle guerre civili più cruente che l’umanità abbia mai conosciuto, che sarebbe esplosa l’anno successivo.

Attraverso il Mediterraneo, Smaïl raggiunge il porto di Marsiglia e qui decide di fermarsi, a lavorare come muratore per nove anni.

Nel 1962, dopo anni di terrorismo, rappresaglie, napalm e un numero spropositato di vittime, l’Algeria ottiene finalmente la tanto sofferta indipendenza dal colonialismo francese. Smaïl, scampato al decennio di violenza, è convinto di voler tornare in patria, quando conosce Malika, anch’ella algerina. I due decidono di rimanere a Marsiglia, si sposano e hanno cinque figli. Madjid, Farid, Noureddine, Lila e Zinédine.

A noi interessa il più giovane, che nasce il 23 giugno 1972: Zayn al-Dīn Zaydān. Il suo nome in arabo significa “bellezza della religione”. Zinédine Yazid Zidane.

Il ragazzo cresce in fretta, dà del “tu” al pallone, e incanta compagni e avversari con un gesto tecnico che gli riesce incredibilmente naturale: una ruleta, una giravolta. La ripeterà all’infinito, come un esotico passo di danza. Diventerà il suo marchio di fabbrica. A 16 anni esordisce in Ligue 1 (il campionato francese) con il Cannes. Dopo cinque anni passa al Bordeaux, poi il definitivo salto di qualità: Juventus e Real Madrid.

Zizou veste la maglia della nazionale francese 108 volte, vince un Mondiale e un Pallone d’Oro nel 1998, un Europeo nel 2000 e un’infinità di titoli con i club in cui milita.

Una ruleta dopo l’altra, una danza dopo l’altra, Yazid ha conquistato il mondo. Con i suoi lineamenti affusolati, il portamento elegante come una tagelmust indossata da un tuareg, e quello sguardo penetrante che ricorda immediatamente le sue origini berbere. Ai miei figli potrò dire, orgoglioso: ho visto giocare Zidane, l’ho visto muoversi a rallentatore su un campo da calcio e fare una giravolta. Quasi a scansare le avversità, i luoghi comuni, i pregiudizi.

Dall’unione di due culture apparentemente inconciliabili, quella occidentale francese e quella musulmana, berbera, è nato Zinédine Yazid Zidane. A me basta questo. A voi?

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Calcio e politica hanno fin troppe cose in comune
Calcio, Politica

Politica per ultras

Che noia la politica
Tutti ladri quelli là

Se ogni luogo comune si basa su una qualche verità, lo stesso vale per queste due frasi tipo pronunciate dall’italiano medio; standard che comprende probabilmente tu che stai leggendo e io che sto scrivendo.

In effetti è così, la maggior parte di noi guarda con sospetto ai politici e al loro lavoro, si sente distante dai partiti, e prova un senso di appartenenza viscerale per una cosa soltanto: la propria squadra del cuore.

Eppure, politici e calciatori, sostenitori e tifosi, oggi hanno un’infinità di cose in comune: questa è la guida giusta per orientarsi in politica, se, come me, sei appassionato di calcio.

Facciamola breve, ogni partito può essere una squadra, ma soprattutto ogni politico è un calciatore: un idolo per i suoi fan, gli chiedono foto e selfie, guadagna un sacco di soldi.

Matteo Renzi
Matteo Renzi

E’ il calciatore glamour per eccellenza, vive sui social network, gli sale l’autostima ogni volta che un sostenitore gli chiede un selfie, ogni applauso è una vittoria. Si è autonominato leader della squadra, offrendo tantissima quantità, ma poca qualità. Se Rino Gattuso fosse stato bello come David Beckham, avremmo avuto il Matteo Renzi calciatore, con il numero 4, per ricordare a tutti il Referendum Costituzionale del 4 dicembre.

Beppe Grillo
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Lo sguardo spiritato è il suo primo biglietto da visita, il secondo è una scivolata a gamba alta ad amputarti il ginocchio. E’ il capitano di una squadra di provincia, che appena vede all’orizzonte lo scontro con la big del campionato si trasforma in una belva incontrollabile. Impedire agli attaccanti di segnare non è importante, ma l’unica cosa che conta. Se fosse ancora in attività sarebbe Paolo Montero, con l’inedito numero 5. Come le Stelle.

Matteo Salvini
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Qui ritratto in una rara convocazione europea, è il prototipo del portavoce popolare, milita in una squadra poco blasonata, della quale diventa in fretta leader. Urla, si sgola, lotta su ogni pallone, è il primo a difendere i compagni. Poi un giorno all’allenamento non lo trova più nessuno: è andato alla Juventus. Da capitano del popolo diventa traditore. Il Matteo Salvini calciatore è Gonzalo Higuain, con il numero 16. Come la sua ruspa 4×4.

Silvio Berlusconi
Italy Berlusconi Scandal
E’ una vecchia volpe che da qualche anno si è ritirata dal calcio giocato, astuta, sempre in agguato, letale. Segue il dettame secondo cui la miglior difesa è l’attacco, e coloro che si sono confrontati con lui quando era ancora in attività fanno incubi terribili sui suoi colpi di testa e goal di rapina. Silvio Berlusconi è sicuramente il Pippo Inzaghi della politica, lo vedi poco, credi sia in fuorigioco, e invece dal nulla ti purga. Il numero di maglia? 69.

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